Tor Pignattara

I Negozi

Di negozi a Centocelle, all’inizio, ce ne erano pochi. Penso che li conoscessi tutti e in tutti sia stato più volte, cosa impensabile ovviamente ora. Almeno fino al 55~56, quando la borgata “esplose” per il boom edilizio. Elenco i negozi più significativi:

– il “negozietto”: era in una casetta a un piano in via dei Castani, fuori allineamento con gli altri palazzi. Vendeva pane, pasta, zucchero, uova, formaggi e salumeria. Il padrone era un signore simpatico, soprannominato “il negozietto” che faceva la corte a tutte le signore e le cameriere. La pasta e lo zucchero veniva venduto sfuso; la pasta la mettevano in buste di carta marrone, lo zucchero in cartocci di carta azzurra (il colore “carta da zucchero”: chissà perché).

– il “nonnetto”: all’ora di uscita da scuola stava sotto scuola, nel pomeriggio si metteva col suo carrellino a mano vicino al negozietto. Vendeva innanzitutto fusaje (lupini), bruscolini e olive verdi, in cartoccetti di carta marrone, quando ce l’aveva, se no di carta di giornale. Poi caramelle, liquirizie, finti gelatini di zucchero e biscotti duri. Il Graal per me era una pistolina che sparava in bocca confettini di zucchero.

– il “vapoforno” che faceva il pane; un mio compagno di seconda elementare faceva lì il “cascherino”, cioè portava il pane alle case la mattina (si andava a scuola il pomeriggio). Il pane di base allora erano le ciriole, poi le rosette, il coreano e i panini all’olio

– “Gioacchino”, altro vapoforno più raffinato, vendeva anche i maritozzi e una pizza bianca squisita che mangiavo spesso con la mortadella del Norcino oil Norcino, come si chiamavano allora parecchi salumieri che erano originari di Norcia, che vendeva salumi, formaggi, aringhe e baccalà.

– PUM, il più grande negozio di Centocelle di vestiti, quasi “moderno”

– Savio, il cartolaio. Allora si usavano prevalentemente le penne col pennino e l’inchiostro. Di quaderni ce n’erano solo due tipi: neri lucidi col bordo rosso e, quelli che preferivo, con una copertina colorata, con una figurina con una riproduzione di un monumento di una città italiana, così si poteva farne la collezione

– il “libraio”, un bugigattolo che vendeva sostanzialmente solo libri scolastici, e pochi altri, soprattutto quelli per ragazzi dei Fratelli Fabbri, a 300 lire

– il giornalaio, un’edicola lontana parente di quelle di adesso, con una decina di riviste e molti giornali (Messaggero, Tempo, Paese Sera, Momento Sera, Giornale d’Italia, l’Unità e l’Avanti). C’erano le figurine (un paio di tipi), spesso in bianco e nero o a due soli colori; io feci la raccolta di quelle delle armi, dalla pietra alla bomba atomica, passando per il gladio romano, il kriss malese, la scimitarra saracena, l’alabarda, l’archibugio, il winchester, il bazooka, il lanciafiamme e così via.

– Gaggioli, il mobiliere che c’è ancora.

– l’osteria, dove di giorno si vendeva il vino e la sera metteva dei tavoli e i vecchietti andavano a giocare a carte e a bere. Il vino era in un armadio particolare con i rubinetti. Ero diventato amico del padrone che mi conservava i tappi delle bibite, di cui facevo la collezione.

– “birra e ghiaccio”, un’altra osteria, che d’estate vendeva il ghiaccio in grossi blocchi

– la pizzeria, all’aperto, a parte i prezzi e il sapore formalmente simile a quelle più semplici di oggi; tra i bambini andava berci la gazzosa, i più grandi mescolavano la gazzosa con la birra o il vino. A proposito di vino, ovviamente il più diffuso era il bianco dei Castelli. Tra i rossi, si trovavano il Chianti in fiaschi o anche sfuso, il Piglio e, quello che preferivo (si, ho cominciato a bere vino, prima con l’acqua e poi senza, quando ho smesso di bere il latte della balia, e così facevano la maggioranza dei miei coetanei), il dolce d’Olevano.

– il gelataio: crema, cioccolato, torrone, fragola, limone e panna; coni o coppette da 10, 20 e 30 lire ola farmacia e la “farmaceutica” (vendeva prodotti farmaceutici, ma non medicinali), simili ad adesso, ma più austere. C’era la bilancia per pesarsi

– il tabaccaio: la maggior parte della gente comprava le sigarette sfuse (5 o 10), che venivano messe in bustine con la pubblicità delle carte Modiano.

– il mercato la mattina era il posto più importante della borgata; il sabato era aperto anche il pomeriggio e d’inverno, col buio, si illuminava. A parte i banchi dei salumieri che erano semifissi, le bancarelle erano tutte mobili e venivano tolte di mezzo il pomeriggio. I venditori facevano a gara a urlare la bontà e la convenienza della loro merce, con canzoncine, slogan o anche doppi sensi (si possono immaginare quelli dei venditori di fave o altri legumi o dei pescivendoli)

– gli ambulanti; in prossimità del mercato o la domenica vicino alla chiesa c’erano una congerie di venditori ambulanti che, oltre alle cose che vendono ancora adesso, cose che ora sarebbero impensabili. Per esempio c’erano quelli che vendevano le cartoline, disposte dentro un ombrello aperto; poi c’erano delle strane saponette che passate su una figura di un giornale ne scioglievano l’inchiostro e quindi ne permettevano la riproduzione su un foglio di carta: una specie di fotocopia, che però veniva al contrario: non ho mai capito a cosa potesse mai servire, ma sognavo di averla. C’erano poi gli organini che, oltre a suonare, vendevano dei fogletti con le canzoni e con i numeri da giocare al lotto. Dopo la repressione del 56 in Ungheria, c’erano anche dei profughi che vendevano qualche oggetto

– la “vecchietta” (“Aiecco”). Un giorno bussò a casa nostra una signora anziana, traccagnotta, con un lungo vestito nero, che veniva da un paese della Ciociaria (c’era il trenino da Fiuggi che si fermava alla stazione di Centocelle). Portava una grossa cesta in testa, tenuta su con lo straccio arrotolato, il “cercine”, (una tecnica per portare i pesi usata dalle donne dall’antichità e scomparsa improvvisamente a metà del novecento; immortalata in vari film, per esempio da Sofia Loren ne “La Ciociara”). Disse che era venuta a portare delle cose a una signora che però ora non era in casa e quindi, per non portarle dietro, ci chiedeva se ci interessava comprarle noi. Mia madre prese delle uova e del formaggio che erano decisamente buoni e, probabilmente, anche a buon mercato. Da allora periodicamente (non ricordo se una volta al mese o una volta ogni 15 giorni, ci portava roba la più varia dalla Ciociaria (olio, salami, castagne, perfino una statuetta della Madonna). Quando arrivava, appena aperta la porta entrava in casa dicendo “Aiecco signò, t’ho purtate lu furmagge” o qualcosa del genere, per cui l’avevamo soprannominata “Aiecco”.